Avviso: chi la pensa diversamente, tiri dritto e legga altro.
Da circa trenta anni mi interesso di vino, e da una decina di anni a questa parte per precisa scelta bevo quasi esclusivamente “vini naturali”.
Il mio cammino nel mondo del vino è simile a quello di tanti.
Primi anni ‘90 perchè bevo vino naturale
Curiosità, voglia di saperne di più, scoprire che i sensi hanno potenzialità inimmaginabili e così, additato dai più come un pericoloso “carbonaro etilico” iniziavo i primi corsi di avvicinamento, poi i livelli 1, 2, 3, 4, 6, 7 etc etc…
Qualche anno dopo, entro anche attivamente nel mondo del cibo, per fortuna dalla porta principale, e ammetto che per un po’ Bacco finisce relegato (a torto) a comprimario di ciò che mangio.
Però, il primo amore bussa di nuovo alla porta, stavolta più insistente.
Riprendo a interessarmi al vino con più tecnica, ma senza i lacci e lacciuoli di divise, sontuosità e liturgie autoreferenziali di un certo modo di intendere il vino, cose che mi avevano infastidito già all’inizio del mio percorso.
Fine anni ‘90 secolo scorso
In giro fanno capolino timidamente le prime bottiglie “biologiche”.
Il termine “naturale” non era ancora in voga.
Sempre pronto a confrontarmi, provo le “novità”.
Purtroppo, gran parte di quel che all’epoca (mi) capitò nei calici, alias non pochi vini, in tutta onestà si dimostrò imbevibile, o quantomeno mediocre sensorialmente.
Si, qualche bottiglia era interessante, come condivisibile la “filosofia” che si portava dietro, ma la maggioranza non mi scaldava, anche se la scoperta che alcuni Moloch dell’enologia nostrana (e d’oltralpe) lavoravano in “naturale”, iniziava a mettermi la pulce nell’orecchio…
Non abbastanza, però.
Pur non chiudendo a priori, rientro nel rassicurante mondo dell’enologia istituzionale fatto oggi come allora, di granitiche certezze, sempre da libero battitore, ma con un granello di curiosità in più.
Altri dieci anni, e per caso incontro sulla mia strada una nuova generazione di “naturali” in calice…
Visto che concedo sempre una seconda (talora terza) possibilità, assaggio.
Prima timidamente, poi sempre con più convinzione mi accorgo che la musica è cambiata, molto.
Mi si apre tutto un mondo dove i vini palesemente difettati sono ormai rari, ancor meno quelli “noiosi”.
Molti, moltissimi invece quelli sorprendenti per il poliedrico corredo sensoriale, decisamente più ampio rispetto ai “convenzionali”, espresso però in un linguaggio diverso, dai registri mai ripetitivi o scontati, almeno rispetto a quel che ero abituato,
Per alcuni una “rivoluzione”, per me un piacevole e provvidenziale scossone.
Però, abbandonare il sicuro e il rassicurante, non è semplice…
Infatti, il dilemma per qualche tempo è stato questo: possibile che i vini che bevevo fino qualche anno prima iniziassero a risultarmi non cattivi o difettati, ma semplicemente noiosi e in qualche caso perfino banali?
Si.
Si, perché alla fine di questo percorso, come già detto comprensivo anche dei miei “Stop and go”, avevo finalmente focalizzato i due principali fattori che anno dopo anno hanno impoverito e reso “piatto” gran parte del mondo del cosiddetto “vino convenzionale” e che mi hanno spinto nel mondo dei “naturali”
1 – l’eccessiva corsa ad allargare la fascia di consumatori, e l’invadenza di una “certa scuola di pensiero” legata a doppio filo alle industrie di prodotti enologici, aveva portato pian pianino al prevalere “certi modelli di vino”, rassicuranti e buoni un po’ per tutti.
Di conseguenza, i protocolli enologici di produzione si erano piegati a questo andazzo (pur con qualche lodevole eccezione…) immettendo sul mercato vini che, a discapito dei nomi e di quanto in etichetta, giocavano le loro carte sensoriali solo su determinati registri, a dispetto della comunicazione che invece esaltava presunte territorialità e tipicità, nei fatti risibili, almeno sensorialmente.
2 – In conseguenza di quanto scritto prima, il vino era stato trasformato in buona parte in un prodotto massificato e industriale, dove la “scienza”, il marketing e la rincorsa all’ultimo sangue del consumatore, prevaricano la sfera sensoriale, e questo non solo per le realtà da milioni di bottiglie, ma anche per tante piccole e per molti versi lodevoli cantine che, pur “davvero artigiane”, nei fatti finivano per appiattire i loro vini ai protocolli di quelle industriali.
E ora?
Chi ha fatto la scelta di bere “naturale” sa bene che è difficile se non impossibile tornare indietro.
Non è solo la mia opinione, ma quella di tanti e non solo per i motivi “etici”. Come già detto, l’innegabile e più variegato corredo sensoriale che in generale contraddistingue i “vini naturali” fa la sua parte. perchè bevo vino naturale
Però, personalmente, se non trovo sulla mia strada un “vino naturale”, o se sono ospite, non ho problemi a bere, e magari anche apprezzare qualche “vino convenzionale”, però, in questi casi, se sento (o leggo in etichetta…) la parola territorialità, faccio come Joseph Goebbels quando udiva la parola “cultura”.
«Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola» (io solo metaforicamente…).
Giusto a titolo di curiosità, nel mondo dei convenzionali sto iniziando ad osservane una nuova, e per molti versi curiosa tendenza.
E’ quella dei vini “costruiti” fino all’inverosimile, alias piegati ed esagerati fino al parossismo verso registri sensoriali anni luce distanti dal terroir a cui dovrebbero appartenere.
Paradossalmente, ammetto che alcuni mi hanno incuriosito per il gran lavoro che c’è dietro, anche se in questi casi chi mi parla (e scrive in etichetta) di territorialità commette un abominio bello & buono…
Però, gli opposti a volte si attraggono…
Infine, due ultime notazioni a margine.
La prima è sul fiorire di tante cantine che si richiamano al mondo del “naturale”.
Alcune sono giovani realtà artigianali che lavorano davvero bene, altre invece sembrano calate nel mondo dei “naturali” per mera convenienza (di alcune industriali o semi-industriali ho perfino dubbi sulla loro reale “naturalità”) solo per inseguire il business della piccola e montante moda dei “vini naturali”.
Spero ardentemente che tutto questo fervore non vada a scapito della qualità e della bontà dei vini, perché sarebbe una iattura per tutto il movimento dei “naturali” riportare indietro l’orologio fino al tempo di quando più di un “vino naturale” palesava problemi reali, e non solo percepiti, magari mascherati dalla tafazzistisca & autolesionista dichiarazione… «ma è perché metto pochissima (o niente) solforosa…» che tradotto in parole povere diventa la solita formuletta “vino naturale” = vino che puzza…
In ogni caso, l’innegabile crescita del mondo “naturale” in più casi ha avuto l’effetto di costringere molti ristoranti a trovare, magari controvoglia, un angolino per i naturali nelle loro carte dei vini… perchè bevo vino naturale
La seconda è che una parte della sommellerie nazionale istituzionalizzata sta iniziando a interessarsi senza senza pregiudizi e senza “puzze al naso” ai “vini naturali”.
Bene, anzi: benissimo, bella sorpresa, però purtroppo ancora limitata a pochi singoli soggetti.
P.S – Il (mio) concetto di “vino naturale” è semplice.
In vigna “bio spinto” e nessun trattamento salvo rame e zolfo il minimo possibile.
In cantina SOLO fermentazioni spontanee, niente chimica, e se proprio serve un minimo di SO2 in imbottigliamento.
Limitatamente a qualche specifica situazione geografica e/o climatica, un blandissimo (magari artigianale) controllo della temperatura ci può anche stare…
P.S. bis – Logicamente il “vino naturale” non esiste, perché il vino è sempre e comunque frutto dell’interazione dell’uomo con la natura, però il termine (pur manifestamente errato) è ormai entrato nell’uso.
Un po’ come il termine “Indiani d’america”.
Non hanno nulla a che spartire con gli Indiani dell’India, ma per tutti sono semplicemente “gli indiani” e basta!
In ogni caso, nello scrivere “vino naturale”, a scanso di equivoci uso sempre il virgolettato…
perchè bevo vino naturale
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Sood, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?
E perché solo “Limitatamente a qualche specifica situazione geografica e/o climatica, un blandissimo (magari artigianale) controllo della temperatura ci può anche stare…”?
In che senso, o in che modo, il controllo della temperatura “snaturalizza” più di usare altre cose che naturali proprio non sono?
Il vino per seguire le fasi lunari, non deve essere filtrato, solo continui travasi