Al contrario di qanto si crede, i suini neri sono in Italia da molto prima delle razze rosate.
Si: i nostri maiali un tempo erano al più di colore scuro, tra il grigio e il nero.
Testimonianze di questo arrivano da famosi pittori che, nel raffigurare scene bucoliche inserivano come soggetti maiali sempre rigorosamente neri.
A partire dagli anni ’90, in Italia è iniziata la riscoperta di questi suini, più “magri” e dagli eleganti mantelli scuri, in precedenza relegati in pochi allevamenti, in prevalenza montani.
Il declino dei nostri maiali neri inizia attorno la metà del 19° secolo, con l’arrivo di razze iper-produttive selezionate soprattutto in Gran Bretagna.
Il panorama delle porcilaie è così gradualmente cambiato “schiarendosi”, anche nell’immaginario collettivo.
Il rosa si è trasformato nel colore canonico dei suini, fenomeno esemplificato nella razza “Large White” e derivate, oltremodo rese ancor più famose da film & cartoni animati.
Certo, le razze di suini rosa avevano, e tuttora hanno non trascurabili vantaggi per gli allevatori.
In primis la rapidità di crescita, e il maggior peso raggiungibile negli allevamenti intensivi rispetto ai loro parenti “neri” che, controbilanciava lo svantaggio della minore qualità organolettica della carne, e talvolta della maggiore quantità di grasso, anche se questo fattore con miglioramento della genetica, ha ora meno importanza.
Così, i poveri maiali delle varie razze “nere” come il nero dei Nebrodi, la mora romagnola, la nera casertana, il suino nero calabrese, la cinta senese e altri, hanno rischiato seriamente l’estinzione.
E… se questi maiali esistono ancora, dobbiamo dire grazie un manipolo di testardi allevatori che, tra mille difficoltà, hanno preservato queste razze più o meno in purezza, dribblando anche il rischio dell’endogamia.
Senza di loro oggi i maiali neri sarebbero solo un ricordo
Nello specifico della Puglia, si è “riscoperta” una razza nera locale che, dopo studi, ricerche e selezioni, ha reso possibile pur se con numeri ancora piccoli, di ricreare una popolazione in regione.
Andando oltre l’aspetto storico-qualitativo, il “ritorno” del maiale nero ha permesso anche il recupero produttivo (e sostenibile…) di terreni incolti in zone marginali, quelli dove tradizionalmente erano allevati allo stato brado e semibrado.
Così, una visita domenicale a una piccola azienda artigianale, la Salumi Martina Franca, sita nei pressi della omonima cittadina in provincia di Taranto, azienda che ha scommesso sulla filiera corta del suino nero pugliese, si è trasformata in primis in una occasione di conoscenza del territorio e dell’azienda, poi, in fase di assaggio, in un bell’esercizio di smarrimento dei sensi, tra ottimi sentori e sapori.
Martina Franca dal punto di vista della norcineria è nota per il capocollo (in dialetto chépecùedde), una delle non tantissime vere eccellenze in questo campo presenti al di sotto del fiume Tevere.
La lavorazione di questo salume prevede che i tagli di carne dedicati vengano prima messi sotto sale per due settimane, poi marinati con spezie e vincotto.
Dopodiché, si insacca in un budello, si lega con dello spago, e poi il tutto è avvolto in panni di lino o cotone.
Segue l’affumicatura che donerà al capocollo il suo peculiare profumo.
Rami di fragno (Quercus trojana), la quercia più presente in zona, e malli di mandorla bruciano insieme per due giorni, dando al prodotto il personalissimo tocco finale.
Il Capocollo di Martina Franca e il maiale nero…
Lo si potrebbe liquidare come un riuscito esperimento di ri-attualizzazione di una eccellenza locale.
No, non è solo questo, perché le carni dei maiali neri, visto il loro profilo organolettico diverso, al contrario di quelli “rosa” sfoggiano la loro parte grassa anche e sopratutto nelle sottili venature di grasso (marezzature) che le ammorbidiscono, rendendole nel contempo più seducenti al palato.
Inoltre, gli animali allevati allo stato brado non lontano dal salumificio, hanno spazio a volontà per scorrazzare liberamente e socializzare (per chi non lo sapesse i maiali sono animali molto sociali) subendo pochi stress e non palesando i problemi comuni di quelli degli allevamenti intensivi, tra i quali la ritenzione idrica.
In poche parole… carni di miglior qualità e salubrità.
Esteriormente le fette di questo capocollo si mostrano di un colore rosso vino virato al bruno, punteggiato dalle sottili e ben distribuite marezzature di grasso.
Olfattivamente, chiare e pulite le note di ghiande leggermente virate all’acido che, ben si sposano con indizi di legno e fumo, mediamente persistenti.
Al palato è delicato, sapido e avvolgente quanto basta, con belle note di tostatura che richiamano ancora l’affumicatura.
Come sempre quando si parla di salumi, anche il Capocollo di Martina Franca va gustato a temperatura ambiente, perché i processi fermentativi che liberano gli acidi grassi e che stimolano l’oleogusto, e che permettono di armonizzare gli altri sapori, sono al loro top solo con la corretta temperatura.
Da evitare, la diffusa abitudine di mangiare i salumi appena fuori dal frigorifero.
Serve il giusto tempo per adeguarsi alla temperatura ambientale più vicina a quella della bocca.
Nelle calde estati, ammesse piccole eccezioni…
Salumi Martina Franca