Gastronomia, classi sociali e altre favole da convegno
“Cibo per tutti!” — gridano chef, guru del marketing e politici nelle tavole rotonde.Ma intanto, là fuori, un menu degustazione da 12 portate costa come la spesa mensile di una famiglia media.
E allora la domanda nasce spontanea: in che senso “per tutti”?
Viviamo nell’epoca in cui la gastronomia viene presentata come esperienza democratica, un ponte tra culture, un linguaggio universale.
Ma nel concreto… il cibo d’autore resta sempre più spesso per pochi, mentre nei talk-show e nei festival si predica l’inclusività come se fosse il nuovo burro chiarificato.
Nel frattempo, tra eventi foodie, piatti “instagrammabili”, e ricette da 40 ingredienti (che trovi solo su Amazon Prime), chi fatica ad arrivare a fine mese si accontenta di un panino del discount. Con la senape scadente, ovvio.
E allora, caro lettore: il buon cibo è un diritto, o un lusso da vetrina?
Stiamo costruendo una cucina per tutti o una nuova forma di esclusione mascherata da storytelling patinato?
La narrazione inclusiva: realtà o operazione cosmetica?
Non passa giorno senza che qualche manifestazione gastronomica promuova l’inclusione, la sostenibilità e il ritorno alla semplicità contadina. Bellissimi concetti, certo. Ma poi vai a vedere: ingresso a pagamento, showcooking con tre sponsor, degustazione solo su prenotazione. Possibilmente con dress code e parcheggio riservato.
La gastronomia si è trasformata in una liturgia elitista, dove si recita il mantra dell’accessibilità tra calici da 18 euro e finger food decorati con fiori edibili.
Il popolo? Sta fuori a guardare. O guarda su Instagram, con l’acquolina in bocca e il mutuo sulle bollette.
Parlo con cognizione di causa: faccio il critico gastronomico (e anche enologico) da anni, e di cucine ne ho viste tante, da quelle stellate a quelle con le stelle solo in cielo, perché il tetto mancava. Ho il polso della situazione, e vi posso dire che la distanza tra chi cucina per mestiere e chi mangia per vivere non è mai stata così ampia.
E se oggi mi tocca – metaforicamente ma neanche troppo – sputare nel piatto in cui mangio, lo faccio senza esitazioni. Perché chi ama davvero il mondo del cibo non può ignorarne le storture.
Non può restare complice silenzioso di un sistema che spaccia accessibilità mentre costruisce barriere.
Cosa vuol dire davvero “cibo per tutti”?
Non significa abbassare la qualità. Significa rivedere le logiche di accesso, comunicazione, distribuzione.
Significa: perché un ragazzino di periferia non può conoscere il vero Parmigiano Reggiano?
Perché una mensa scolastica non può offrire cibo vero, invece che cotolette gommose e mele farinose?
Perché in una trasmissione culinaria si parla più di chef e sponsor che di territorio e prodotti reali?
A tal proposito, un paio d’anni fa, durante un evento, ebbi una conversazione con un produttore televisivo – uno che lavora dietro le quinte di quei programmi patinati dove chef famosi si esibiscono tra effetti luce e piatti da collezione. Simpatica persona, sveglia, e anche onesta. A un certo punto mi disse, quasi ridendo:
«Guarda, la nostra rete ha commissionato un sondaggio: il 95, forse il 98% degli spettatori non è mai stato, e non ha intenzione di andare, nei ristoranti degli chef protagonisti del programma. Troppo cari, ovviamente. Ah, dimenticavo… oramai la gente confonde ‘bello’ con ‘buono’, è un cambiamento di paradigma dato per assodato.»
Capito? Una cesura netta, clamorosa e consapevole tra il gusto vero e lo spettacolo puro.
La gastronomia come fiction di lusso, pensata per chi non parteciperà mai davvero.
Il problema non è la gastronomia, ma chi la governa. E come la racconta.
C’è troppa estetica e poca etica, troppe luci e pochi piatti caldi.
C’è un’intera macchina comunicativa che finge di parlare di cibo, mentre fa solo spettacolo e branding.
E il risultato? Chi lavora seriamente viene messo all’angolo, mentre chi ha il budget e le conoscenze giuste vince anche con una cucina senz’anima.
Un’utopia possibile
Certo che possiamo costruire un cibo per tutti. Ma serve meno fiction e più azione. Meno selfie e più filiera. Meno narrazione, più distribuzione.
E anche un po’ meno retorica: perché a furia di raccontare la favola del “ritorno alle radici”, ci si dimentica di chi, quelle radici, non le ha mai potute assaggiare.
Il gusto è cultura, è educazione, è possibilità di scegliere. Non può restare solo nei piatti degli chef stellati o nei feed dei food influencer.
Non può ridursi a esperienze multisensoriali da mille euro a testa mentre fuori dalla sala c’è chi non può permettersi nemmeno un piatto di pasta con un sugo vero.
Se vogliamo davvero una gastronomia inclusiva, cominciamo col ridurre la distanza tra piatto e persona.
Cominciamo col ridare dignità alla semplicità, a chi produce bene in
silenzio, a chi cucina ogni giorno senza hashtag e senza lustrini.
E poi, forse, potremo dire senza imbarazzo: sì, questo è davvero cibo per tutti.
Ma fino ad allora, continuiamo pure a sputare nel piatto. Se serve a renderlo migliore, ne vale la pena.
Torniamo umani, per favore…

Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Food, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?