C’è olio… e c’è olio.
C’è l’oro verde spremuto a freddo, figlio di cultivar nobili, raccolte anticipate al primo segno di invaiatura, estrazione entro poche ore, filtrazioni fatte a dovere. C’è l’olio vivo, profumato, piccante e amarognolo al punto giusto, che racconta il terroir meglio di cento brochure turistiche.
E poi c’è… quello che si trova nei ristoranti italiani. Anche in certi con le tovaglie stirate, i menu gourmet, e la carta dei vini chilometrica. Anche in quelli dove si paga tanto, ma si continua a servire olio simil mensa scolastica del 1998.
Perché sì, dopo trent’anni di rivoluzioni nel mondo oleario – frantoi a ciclo continuo, filtrazioni tangenziale, inertizzazioni, stoccaggio in acciaio sotto azoto, e produttori sempre più consapevoli – una certa parte della ristorazione italiana, affatto minoritaria, sembra voler rimanere ferma al medioevo dell’olio d’oliva.
Un olio spesso maltrattato, ignorato, o peggio ancora esibito come vanto, quando è solo il simbolo di una trascuratezza sistemica. olio maltrattato
Non è solo questione di budget o ignoranza: è proprio disinteresse colpevole. Sciatteria elevata a sistema. Superficialità che confina con il sabotaggio, e che vanifica gli sforzi titanici dei migliori produttori.
Vediamo insieme qualche perla nera, tanto per farci del male.
Il circo degli oli “territoriali” (rancidi…)
Persiste una certa retorica da osteria “identitaria” che ama esporre bottiglie oleose e puzzolenti come “olio del posto”, “di mio cugino”, o “del nonno dell’oste”. In realtà si tratta spesso di prodotti casalinghi, non filtrati, ossidati, imbottigliati in modo dilettantesco e conservati peggio. Quell’odore da calzino bagnato non è affatto “territorialità”: è irrancidimento. Punto.
Quella sensazione unta e floscia non è “genuinità”, ma solo vecchiaia mal portata. Ma guai a dirlo! Si rischia di passare per snob o peggio, “industrialisti”.
L’olio vecchio… che sa di armadio
Un grande classico: bottiglie aperte da mesi, lasciate sul tavolo o al caldo della cucina, magari con mezzo tappo. L’olio ossida in fretta: bastano luce, calore e ossigeno, e il profumo svanisce lasciando spazio al rancido e al grasso cotto.
Ma in più ristoranti italiani si continua a usare l’olio della scorsa stagione, magari anche già filtrato male, e lasciato respirare per mesi. In pratica, si mette sul tavolo un condimento morto. Ma con la bottiglia bella, magari! In vetro trasparente, certo… così si vede meglio come si degrada.
I tappi? Accessori trascurabili, a quanto pare
Poi ci sono loro: i tappi. olio maltrattato
Quanti tappi dosatori avete trovato incrostati, incollati, maleodoranti? Veri nidi di muffe e rancido. O ancora peggio: tappi antirabbocco rotti, forzati, palesemente manomessi per rabboccare con chi sa cosa…
Sigilli scollati, capsule “scassinate”, oppure bottiglie con tappi svitati a metà, tanto “poi li stringe il cliente”. Una liturgia di negligenza, con l’aggravante del potenziale illecito.
Eppure dal 2014 esiste una legge chiara che obbliga i ristoratori a usare bottiglie con tappo antirabbocco non riutilizzabile. Ma si sa… in Italia le leggi sono come l’olio buono: le conoscono in pochi, e le rispettano ancora meno.
Bottiglie a tavola come arredo, non come scelta consapevole
Altro grande classico: bottiglie d’olio messe lì, come centrotavola, senza che nessuno spieghi cosa sono. Nessuna indicazione in carta, nessun nome di produttore, nessuna varietà, nessuna data di scadenza leggibile.
Il cliente? Se è fortunato, intuisce che l’olio è quello. Se è curioso, prova. Se è esperto, scuote la testa. E se è rassegnato, se lo versa sull’insalata senza fiatare, respirando appena per non sentire l’olezzo.
Per non parlare di certi ristoranti “di classe” dove non c’è nemmeno una bottiglia sul tavolo. Solo una ciotolina pre-riempita di olio misterioso, dove il pane si inzuppa nel nulla aromatico. E guai a chiedere che olio è: si rischia lo sguardo smarrito del cameriere che si aggrappa al “non saprei, è quello della casa…”.
E l’olio in cucina? Peggio ancora
Se l’olio di oliva da crudo è maltrattato, quelli usati in cucina se la passano troppo spesso peggio.
Qui si gioca a risparmiare: si usano oli (di gomito?) neutri, rettificati, o miscele a basso costo, anche in piatti dove l’olio dovrebbe splendere. Fritture fatte con oli esausti, soffritti con oli di sansa (ancora?), e condimenti a freddo con oli irranciditi degni di Superciuk.
Per non parlare dei ristoranti che usano oli buoni, ma li cuociono troppo o li fanno fumare, distruggendo tutto il potenziale aromatico e salutistico. olio maltrattato
La solita (finta) giustificazione: “Il cliente non capisce”
Ah, questa scusa eterna: “Ma il cliente medio non distingue un olio buono da uno scadente”. Vero, forse. Ma allora cosa facciamo? Continuiamo allegramente a servire schifezze, tanto “non se ne accorgono”?
Questo è il punto: la ristorazione non dovrebbe adeguarsi all’ignoranza del cliente, ma elevarlo. Educare. Sorprendere. Offrire qualcosa di meglio di quello che già trova al supermercato.
Un ristorante che ama davvero il proprio territorio dovrebbe valorizzarlo anche attraverso l’olio. E non usare quello rancido del vicino solo perché è “del posto” oppure di mio “cuggino” (rigorosamente con tre erre).
Che fare, allora?
Beh, basterebbe poco. Davvero poco.
- Scegliere oli di produttori seri, anche locali, ma che sappiano cosa fanno.
- Usare bottiglie a norma, con tappo antirabbocco, integre e pulite.
- Tenere l’olio lontano da luce e calore, cambiarlo con regolarità.
- Scrivere chiaramente in carta che olio si usa, proprio come si fa con i vini o i salumi.
- Offrire all’assaggio oli diversi, se si può, spiegandone le differenze.
- E, soprattutto, smettere di considerare l’olio come un costo da minimizzare, ma come un ingrediente centrale della cucina italiana. olio maltrattato
Perché l’olio buono non è solo un condimento. È un messaggio. È cultura. È identità.
E se lo trattiamo come uno scarto, stiamo dicendo molto più di quanto vorremmo sul nostro modo di fare ristorazione. L’olio maltrattato è il termometro di una cucina che ha smesso di prendersi cura delle sue fondamenta.

Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Food, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?