Ma davvero possiamo chiamarlo ancora “vino”?
Il vino, per definizione, è il frutto della fermentazione alcolica dell’uva. Senza alcol, semplicemente, non siamo più di fronte alla stessa bevanda. Punto (e accapo…)
È solo marketing furbetto? Una moda passeggera? O siamo di fronte a uno dei più grandi fraintendimenti enologici degli ultimi anni?
Negli ultimi mesi non si parla d’altro: vino dealcolato ovunque, anche dove non te lo aspetti. Vino per chi non può bere vino, vino senza alcol ma con tutto il “gusto” del vino (dicono loro).
Una rivoluzione? Un’inclusione? O semplicemente un equivoco imbottigliato?
Dopo molti tentennamenti ho assaggiato, anzi degustato, un vino dealcolato con tutta la serietà che occorre nei casi “difficili”.
E ho scoperto qualcosa che va ben oltre il calice: una riflessione amara (in tutti i sensi) su dove stiamo andando a finire.
Tecnicamente inappellabile: non c’è vino in questo vino dealcolato
Dal punto di vista tecnico-sensoriale, il risultato è assolutamente mediocre, anzi: disastroso. Al naso, la quasi totale assenza di aromi primari, – quelli che nel vino vero subito parlano di frutto, di varietà, di territorio – sostituiti da un vago sentore “brodoso” è già un campanello d’allarme.
Ma è al palato che il bluff si scopre del tutto: una bevanda dolciastra, con un vago (e fastidioso) sentore artificiale da “Barbie analcolica”, qualcosa che potrebbe essere stato perfetto per un bel brunch con Ken e amici, ma certo non per un tavolo serio.
Struttura? Zero. Acidità? Inutile. Persistenza? Boh... Finale? Assente ingiustificato.
Tutto quel che in un vino si cerca – complessità, evoluzione, equilibrio – qui manca. O meglio: non è mai stato presente. Perché il punto è proprio questo. Non si tratta di un vino malfatto: si tratta di qualcosa che vino non è mai stato, né, così com’è mai potrà esserlo. Punto.
Eppure, eccolo lì, in etichetta: vino dealcolato, come facile immaginare senza neanche osare lo scrivere da che vitigno/vitigni arriva…
Dealcolazione o pastorizzazione? Anatomia di un vino senza anima
Secondo la versione “ufficiale”, questo vino dealcolato da me “degustato” (virgolette d’obbligo) viene ottenuto tramite distillazione sottovuoto su colonne di evaporazione, un sistema tecnologico che promette miracoli: l’alcol viene separato, gli aromi “conservati” e poi reintegrati, il tutto per ottenere un prodotto con meno dello 0,5% di volume alcolico.
Peccato che, nei fatti, questo procedimento (come altri utilizzati) fa il verso più a una pastorizzazione abbastanza spinta che a una delicata sottrazione dell’etanolo.
Il liquido viene riscaldato in due fasi: nella prima si estraggono gli aromi volatili (che già si perdono per strada), nella seconda si elimina l’alcol aumentando la temperatura. In pratica, si smonta un vino molecola per molecola, lo si sterilizza come fosse uno sciroppo per la tosse, e poi si cerca di ricomporlo in bottiglia come se nulla fosse accaduto.
Ma il risultato, ahimè, è palese: un vino dealcolato “ristrutturato” che ha perso l’anima. Come un soufflé afflosciato, come un’orchestra in playback.
Le tecnologie sicuramente sono avanzate, ma se alla fine i sensi ricevono solo un liquido piatto e un po’ zuccherino, il verdetto è uno solo: non funziona.
Una questione semantica (e di rispetto per le parole)
Chiamare “vino” questo prodotto è un sopruso linguistico. È come chiamare “parmesan” il formaggio grattugiato in bustina da discount: magari ci assomiglia da lontano, ma non ha né la dignità, né il sapore, né l’identità dell’originale.
Il vino dealcolato nasce già con una contraddizione nel nome: vino, ma senza ciò che lo definisce. E se poi dobbiamo “reintegrare gli aromi”… stiamo parlando di un vino o di un’operazione di restauro chimico?
Inclusività a tutti i costi? No, grazie.
Comprendo e rispetto chi, per ragioni personali, mediche, culturali o religiose, non può o non vuole bere alcol. Ma non accetto che per includere tutti si debba snaturare un prodotto millenario, svuotandolo del suo significato per farlo entrare nelle logiche del “piace a tutti”.
Non tutto è per tutti, e va bene così
E il vino dealcolato, purtroppo, è la prova che la democrazia del gusto a volte è solo una resa culturale in bottiglia.
Il vino dealcolato: simbolo di un’epoca pavida.
Questo “vino” – se così dobbiamo ancora chiamarlo per mera comodità – è il simbolo di un tempo che ha paura del carattere, del limite, del rischio.
Un tempo che vuole fare finta che il vino possa essere tutto e il contrario di tutto.
Ma il vino dealcolato non è inclusivo, non è democratico, e soprattutto non è vino. Chiamatelo come volete, ma non chiamatelo vino. Punto.
Conclusione: lasciamo stare il vino, per favore
Se volete una bevanda senza alcol, fatevela. Ma non travestitela da qualcosa che non lo è, come (anche…) accade per il pesto alla genovese… con quello senza aglio che pesto non è…
Non ingannate i consumatori, non offendete i vignaioli, e non prendete in giro quei palati che ancora sanno riconoscere la verità di un sorso fatto come si deve.
Perché questo non è vino. vino dealcolato
È una simulazione liquida di un’esperienza che non si può imitare.
E… francamente, dopo averlo bevuto, non ho ancora deciso se mi sento più deluso… o semplicemente preso in giro.

Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Food, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?
Ne ho assaggiati un po”’ i rossi in genere pur se qualche sentore lo hanno sono modestissimi. I bianchi, dei quattro provati sono davvero delle bibite, lontanissime dal concetto di vino