Avete mai sentito parlare della Pampanella molisana?
No, non quella pugliese, né tanto meno quella abruzzese. Qui non si parla di formaggi freschi avvolti in pampini, né di morbide caciottine da aperitivo in tacco 15.
Qui si parla di carne vera, quella che suda nel forno, quella che profuma di festa, di tradizione, di Molise profondo. Qui si parla della Pampanella di San Martino in Pensilis, la regina incontrastata del cibo di strada molisano.
San Martino in Pensilis, piccolo comune nel basso Molise, è il cuore pulsante, l’epicentro incontestato di questo vero e proprio impeto carnivoro.
Da lì, dalle vie e dai vicoli di questo angolo testardo d’Italia non lontano dall’Adriatico, la Pampanella molisana si è sparsa come una febbre speziata per sagre, feste e mercati del Molise e dintorni.
Ancora oggi in zona e nei dintorni, non è infrequente incappare nei furgoni dei venditori, armati di teglie e coltelli affilati, pronti a tagliare pezzi di carne speziata molisana.
Altrove la imitano, altri la reinterpretano, la addolciscono… ma la vera Pampanella molisana nasce qui, tra le mani di chi da generazioni custodisce il segreto di una ricetta tradizionale molisana tanto semplice quanto saporita.
Certo, il nome inganna: Pampanella suona quasi dolce, vezzeggiativo. Invece no. La Pampanella molisana non fa sconti, non chiede permesso: entra decisa, ti prende a morsi e ti lascia col sorriso piccante stampato in faccia.
La Pampanella molisana: una storia di carne, fuoco e sudore
Si racconta che un tempo la Pampanella molisana fosse un lusso per pochi: solo le famiglie benestanti, quelle che potevano permettersi la carne anche fuori dalle feste comandate, si concedevano questo “sfizio”.
Poi, piano piano, la Pampanella ha preso la strada, si è fatta popolo, si è trasformata in cibo di strada molisano ante litteram, venduta tra bancarelle, fiere e festeggiamenti patronali.
Ancora oggi, nei giorni di festa, l’odore speziato ti insegue tra le vie, ti guida prima ancora della vista. E quando arrivi al banco? Teglie cariche, mani veloci, carta oleata che si inzuppa di rosso, coltelli che affettano pezzi di sapore. Un piccolo rito laico che si ripete ogni volta.
Come si prepara la Pampanella molisana
La formula è semplice, ma solo in apparenza: carne di maiale (meglio se non troppo grassa), aglio, peperoncino in quantità generose, qualche erba aromatica, una cottura a 180 gradi per un’ora e mezzo o poco più, e una bella spruzzata di aceto a fine corsa.
Il risultato? Pezzi di carne dal colore rosso intenso, una sorta di soffice crosticina speziata che protegge la morbidezza interna, un profumo che ti si attacca ai vestiti e all’anima.
Piccante? Sì, ma il “quanto” dipende da chi la fa. Un piccante che non è solo fuoco: è memoria, tradizione, un abbraccio rude e sincero.
Poi, c’è chi la vuole ben cotta, più scura, intensa. Chi la preferisce più rosa e morbida. Chi la affetta prima di cuocerla per renderla più tenera.
Ogni famiglia, ogni produttore ha la sua scuola di pensiero, il suo piccolo segreto. Ma il finale è sempre lo stesso: una botta di gusto che non si dimentica.
Negli ultimi anni qualcuno ha tentato di “ingentilirla”, dosando meno peperoncino per non spaventare i palati più delicati.
Va bene, ognuno ha i suoi gusti. Ma diciamolo chiaramente: la Pampanella molisana è roba per stomaci rodati e cuori impavidi. Non è un piatto da salotto: è un morso che sporca, che fa sudare, che lascia il segno.
Origini antiche: la Pampanella molisana e i porci cotti alla Pampanella del Gargano
Eppure, c’è un dettaglio curioso che lega questa tradizione molisana a un’antica pratica del vicino Gargano. Nel suo trattato La Fisica Appula (1806), alla pagina 123 un frate francescano, tale Michele Angelo Manicone, racconta di un metodo di cottura arcaico, usato dai pastori del promontorio: “i porci cotti alla Pampanella”.
Il procedimento? Si scavava una buca nella terra, si sistemavano i rami, la carne condita veniva deposta sopra, coperta da foglie e da uno strato di terra. Poi si accendeva il fuoco sopra la buca.
Dopo tre giorni di lenta cottura, si dissotterrava un maiale profumato, tenero, imbevuto dei sapori della terra e delle spezie.
Un metodo lontano, solo parzialmente simile a quello della attuale Pampanella, ma che con la attuale con la Pampanella condivide forse l’origine e l’etimo del “pampino”, la foglia che protegge e insaporisce, e l’idea di una cottura avvolgente, primordiale, quasi rituale.
Un filo antico probabilmente unisce terre vicine, con un comune amore per il fuoco, la carne e i sapori forti.
Un morso di felicità (che crea dipendenza…)
Mangiare, anzi, mangiarsi della Pampanella molisana, specie per strada a mo’ di street food, è molto più che nutrirsi: è un atto di appartenenza, una sfida, un rito collettivo.
Ti siedi su una panchina, o resti in piedi, strappando pezzi dalla carta unta e obbligatoriamente sporcandoti le mani.
Ogni morso è un viaggio: prima la crosticina speziata, poi il succoso della carne, infine il crescendo del peperoncino che incendia bocca e anima.
E in quel momento capisci: non stai solo mangiando carne. Stai assaporando un pezzo di Molise.
Un Molise schietto, fiero, poco incline ai compromessi. Un Molise che si racconta più con i sapori che con le parole.
Quindi, se un giorno vi capita di passare da San Martino in Pensilis, non fate gli gnorri. Fermatevi. Cercate la Pampanella molisana, la trovate praticamente ovunque, specialmente in macelleria. Compratene un po’.
Mordete. Sudate. Sorridete. E preparatevi a volerla ancora. Perché la Pampanella molisana non si dimentica. Mai.
Mai assaggiato la vera Pampanella molisana? Racconta la tua esperienza nei commenti!

Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Food, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?