Montébore, il formaggio a torta nuziale: storia, gusto e rinascita di un capolavoro piemontese
C’è un formaggio, il formaggio Montebore che sembra più un racconto orale che un prodotto caseario
Lo si incontra raramente, magari celato in qualche banco di mercato di paese, o servito con una sorta di pudore da chi è consapevole di maneggiare una preziosa reliquia casearia.
Si chiama Montébore (occhio agli accenti!), e già il nome racconta di colline che si piegano, di campanili dimenticati, e di quel lembo di Piemonte laterale che odora di Liguria, di Lombardia e perfino di Emilia. Un angolo d’Italia che non fa molto notizia, eppure custodisce magie.
La curiosa forma del formaggio Montébore a forma di torta nuziale
Il Montébore ha una curiosa forma che pare una torta nuziale in miniatura, a tre o cinque piani. Le leggende sull’origine della sua curiosa forma sono tante…
E, in effetti, non è difficile immaginare che quella strana silhouette, a strati decrescenti, nasconda qualcosa di simbolico. Alcuni dicono che sia una sorta di rimando architettonico alle torri del piccolo borgo di Montébore, o a ciò che resta della sua torre medievale: come se il formaggio stesso volesse custodire una miniatura del paese.
Altri invece lo spiegano come una mera soluzione pratica: sovrapporre le formelle di diametro diverso, i “ferslin”, era un modo furbo per stagionare e trasportare senza sprecare spazio. Ma c’è anche chi ci vede solo un effetto scenico, perfetto per stupire gli ospiti durante i banchetti solenni. Una torta, sì, ma di latte!

Formaggio Montébore: un matrimonio di latte tra pecora e vacca
Però, per un cronista del gusto come lo scrivente, il Montébore va descritto come un bel matrimonio d’amore tra pecora e vacca, con talvolta qualche lieve carezza di gusto che arriva dal latte del terzo incomodo: la capra.
Perché il Montébore è un formaggio che non ama la purezza assoluta, ma predilige l’incontro, la mescolanza, le sfumature; proprio come il suo territorio, stretto tra ben quattro regioni.
L’aspetto esteriore è fragile, con una crosta paglierina che sembra una pelle che racconta di una vita vissuta.
Al taglio, la pasta del Montébore varia col tempo: dapprima bianca, tenera, quasi timida; poi si fa più ferma, giallognola, con occhiature piccole e sparse, come certi sospiri trattenuti.

Profumo, gusto e carattere del Montébore
In bocca il Montébore non si accontenta di piacerti subito: ti fa salire prima un latte acido, un erbaceo fine che sa di prati pieni di sole, poi un ritorno animale – quel sentore di stalla, che, in certi casi spaventa i palati abituati a certi noiosi “formaggiucci” senz’anima che tanto spopolano su certi banchi della grande e piccola distribuzione. È un sensuale crescendo che afferra il centro della lingua e lascia un ricordo lungo, persistente, quasi commovente.
Si: il Montébore non è un formaggio da supermercato né da turista frettoloso: è un frammento di bella civiltà contadina, sopravvissuto per miracolo.
Dal banchetto di Leonardo alla rinascita
Cronache e leggende raccontano che fosse già sulle tavole dei potenti dei secoli passati. E qui si innesta un episodio che vale da solo un romanzo: al banchetto nuziale del 1489, quello tra Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza, a Tortona, si racconta che l’unico formaggio servito fu proprio il Montébore. A volerlo in tavola sarebbe stato nientemeno che Leonardo da Vinci, allora maestro di cerimonie.
È bello immaginare il genio fiorentino che sceglie una “torta nuziale” di formaggio per celebrare un matrimonio reale, con la stessa cura con cui disegnava macchine e prospettive.

Poi, misteriosamente, il silenzio, l’oblio, e la resurrezione tardiva negli anni ’90, grazie a pochi coraggiosi e ostinati che hanno deciso di non lasciarlo morire.
Un formaggio che custodisce il paesaggio
Eppure, pare che la storia del Montébore sia ancora più antica. Ci sono riferimenti alla sua produzione già nel Medioevo, quando i monaci benedettini dell’abbazia di Santa Maria di Vendersi, sul monte Giarolo, lavoravano il latte mescolando pecora e vacca con sapienza. Quei monaci non sapevano di produrre solo un formaggio: in realtà custodivano paesaggio, allevamento e tradizione. E ogni forma era una piccola reliquia di quell’equilibrio tra fede, natura e tecnica casearia.
Il Montébore non è, e non sarà mai uguale a se stesso, perchè dipende troppo dall’umore del latte del giorno, dalla mano del casaro, dalla stagione che respira. È un formaggio che porta con sé il difetto come valore, l’imperfezione come verità.
Abbinamenti e metamorfosi nel piatto
E… quando lo si porta in tavola, lo si scopre ancora vitale: da giovane ha tratti lattici e burrosi, un’acidità delicata e note di erba fresca; con la stagionatura si fa più compatto, emergono sfumature di noce, di funghi, di terra. La crosta cambia veste: da chiara e liscia diventa rugosa, color paglierino, fino a toni di nocciola. È una metamorfosi che sembra seguire le stagioni.
Non stupisce allora che gli abbinamenti migliori siano quelli che lo accompagnano senza sovrastarlo: mieli di acacia, la dolcezza rustica della cugnà piemontese, noci o fichi secchi, pere speziate.
O ancora, piatti che lo accolgono come ingrediente: risotti che stemperano la sua cremosità, gnocchi che ne trattengono l’anima con un tesoro ripieno. E se mi si chiedesse un bicchiere a cui accompagnarlo, garantisco che, ovviamente a seconda della stagionatura, ci si può affidare in tutta sicurezza al medesimo territorio, spaziando da un bianco più fresco e floreale come il Cortese, anche di Gavi, oppure ad un potente Timorasso che come noto di quella zona è il vero “padrone di casa”, fino a certe Barbera o Croatine non necessariamente giovani, ma indubbiamente affascinati anche quando più strutturate e con qualche anno sulle spalle. Sebbene, persino certe birre leggere e aromatiche credo possano trovare con lui un equilibrio parecchio felice.
Ed ecco che, allora, lo assaggi, e capisci che non stai mangiando solo un formaggio, ma un pezzo di paesaggio, di memoria salvata di un qualcosa che davvero sembra più un racconto orale che un prodotto caseario.
Fabio Riccio –
Interessato da più di venticinque anni al modo del cibo, crapulone & buongustaio seriale.
Dal lontano 1998 autore della guida dei ristoranti d’Italia de l’Espresso, Scrive sulla rivista il Cuoco organo ufficiale della FIC, ha scritto sulla guidade le Tavole della Birra de l’Epresso, Su Cucina a Sud, sulla guida Osterie d’Italia Slow Food, su Diario della settimana e L’Espresso, e quando capita scrive di cibo un po’ ovunque gli gusta.
Infine è ideatore e autore di www.gastrodelirio.it – basta questo?

Conoscendo il Montebore,utilizzandolo in cucina nelle mie proposte e conoscendo sia il territorio che la sua gente mi complimento per l’esatta fotografia del formaggio e di tutto cio’ che lo rende unico.
Ancora complimenti Alessandro Buffa ,il Campasso
Una poesia che fa venir voglia di assaggiarlo subito, soprattutto l’idea della metamorfosi del formaggio con la stagionatura è affascinante.